Oggi, mentre guardavo le polpette appena sfornate, leggermente bruciacchiate ai bordi, non credevo alle mie orecchie.
“Sei scaduta. Chiedo il divorzio,” disse mio marito spingendo via il piatto. Sembrava così banale, come se annunciasse lennesimo aumento del prezzo della benzina. Rimasi immobile, con la spatola di legno in mano. Il cactus sul davanzale puntava tristemente una spina storta verso lalto, come a confermare: “Per te è finita.” Ho quarantasette anni, e con Marco abbiamo passato ventanni insieme. Nostro figlio, Matteo, studia già in unaltra città da tempo, e il mutuo per il nostro bilocale è quasi saldato. E poi, allimprovviso, “scaduta”.
Tutto intorno a me sembrava congelato, come una vecchia foto in bianco e nero di un programma televisivo. Guardavo le polpette bruciate con malinconia, chiedendomi: “Posso ancora salvare la parte carbonizzata, o è già troppo tardi?” È strano come la mente si aggrappi ai dettagli quando accade qualcosa di davvero spaventoso.
La routine, la corrosione dei sentimenti
Da primavera, un silenzio pesante aveva invaso la casa. Marco tornava tardi dal lavoro, e nel weekend si immergeva nei rapporti che il suo nuovo capo gli aveva assegnato. Io, invece, mi perdevo nella vita dufficio: bilanci, scartoffie, e la sera mi concedevo solo qualche carezza alla nostra gatta, Lilla. Le nostre conversazioni erano rare. Solo un veloce “Compra il latte”, “Carica la carta”, “Chi lava i piatti oggi?” Una stanchezza viscida aveva alzato un muro tra noi.
Matteo, nostro figlio diciannovenne, studia in unaltra città, vive in un dormitorio, e ci vediamo poco. Ogni tanto chiama per chiedere soldi. Durante lestate era tornato a casa, e avevamo pensato di organizzare una grigliata in campagna, ma non se ne fece nulla: o pioveva, o Marco era “troppo stanco”. Avevo già capito che eravamo più coinquilini che marito e moglie.
E ieri, la sentenza definitiva: “Sei scaduta.”
Il catalizzatore e il conflitto
Lombra del divorzio si allungava da tempo. Qualche settimana fa, il lavandino della cucina si era otturato, e avevo chiamato un idraulico. Allimprovviso, Marco aveva detto: “Sono cose da uomini, non centri.” Perché laveva detto? Lui non si occupava mai di queste cose. Eppure, mi rimproverò per non averlo aspettato: come se per lui fosse importante sottolineare la mia inadeguatezza.
Poi, cera stato quellepisodio strano: la nostra vicina, zia Rosetta, ci aveva chiesto nellandrone: “Marco, Giulia, festeggerete presto il vostro anniversario?” Io e mio marito ci eravamo scambiati unocchiata confusalanniversario era passato da un mese. Lo avevamo dimenticato entrambi. La vicina ci aveva guardato con compassione, come se già capisse la nostra rovina.
Ma non mi aspettavo una franchezza così cruda:
“Un divorzio? Davvero?”
“Davvero,” disse mio marito senza guardarmi negli occhi. “Sono stanco. Dura da troppo tempo.”
Il tentativo di capire
Passai la notte sul vecchio divano, quello dove di solito guardavo le mie serie. Lilla, sentendo il mio stato, si mise a fare le fusa ai miei piedi. Non sentii quasi Marcosi era chiuso in camera. Al mattino, quasi automaticamente, preparai il caffè e, fissando il vaso inclinato con il cactus, pensai: “Neanche lui ce la farà. È lì in un angolo, senza fiorire da anni. Una volta, però, è sbocciato.”
Volevo parlare con mio marito, ma non ne ebbi la forza. Andai al lavoro, cercando di mantenere le apparenze. In ufficio, pile di scartoffie, colleghi distratti che giocavano a Sudoku durante la pausa pranzo Io, invece, non riuscivo a concentrarmi. Un pensiero mi martellava: “Sono come una scatola scaduta?”
Chiamai Matteo solo più tardi:
“Matteo, insomma tuo padre ha deciso di chiedere il divorzio.”
Dopo un silenzio, rispose:
“Mamma, lo sentivo da un po che cera qualcosa che non andava. Se diventa troppo pesante, ci sono io,” la sua voce era calma, quasi rassegnata. “Non farti umiliare, ok?”
Sentii il suo affetto. Da un lato, è cresciuto. Dallaltro, ha solo una famiglia, e ora tutto crolla.
Lintervento della suocera
La suocera mi chiamò il giorno dopo. Di solito si informa dei piccioni sul balcone, ma questa volta andò dritta al punto:
“Si parla di divorzio? Marco mi ha accennato qualcosa. Come si fa a lasciare la famiglia a questa età?!”
Senza sapere cosa rispondere, balbettai:
“Non sono stata io a volerlo.”
“Allora non hai saputo vedere, non ti sei presa cura di lui. Non siete più ragazzi, Giulia. Quarantotto anni, il nostro Marco! Dovevi occuparti della sua serenità, ma eri troppo presa dal lavoro, dai tuoi rapporti.”
Stavo per scoppiare: quindi era colpa mia, non abbastanza “femminile”. Ma mi trattenni: a che litigare con lei? Vive in un paesino, passa le giornate nellorto con la sorella minore e i nipoti. Conosce la nostra relazione solo per sentito dire. Eppure, è sempre convinta che la colpa sia della nuora.
La conversazione in cucina
Sabato, finalmente, parlammo “da adulti”. Uscì dal bagno, mal rasato e imbronciato, e si sedette di fronte a me in cucina. Sulla parete, il vecchio orologio a cucù ereditato da mia nonnail cucù era rotto da anni, muto da cinque. Simbolicamente, sembrava che il tempo si fosse fermato anche per noi.
“Non cambierò idea,” disse mio marito piano, spostando la tazza di tè. “Sono stanco, Giulia. Non si tratta più di sentimenti. Questo appartamento non vale la pena di tenerci uniti. Puoi restare a vivere qui. Non pretendo una vendita immediata. Ma voglio la metà del suo valore. Troverò qualcosa per me, forse un affitto, e poi si vedrà.”
Contemplai il tavolo scrostato, la tovaglia di vinile sbiadita a quadri, e ascoltai quel monologo quasi “aziendale”. Come se due soci discutessero di un bilancio. Ma abbiamo ventanni alle spalle. La tristezza mi travolse, anche se mi vergognavo a piangere davanti a lui.
“Capisco,” risposi, cercando di tenere ferma la voce. “Be, se è il divorzio, allora sia.”
Rimammo in silenzio. Sentii un sollievo strano, come se mi avessero tolto uno zaino pesante. Sì, fa paura restare sola a quasi cinquantanni, ma è ancora più spaventoso vivere in una casa dove nessuno ha più bisogno dellaltro.
Il ritorno da mia madre
Il giorno dopo, corsi da mia madre. Vive in un vecchio palazzo con ascensori cigolanti, che mi hanno sempre messo a disagio. Aprì la porta, vedendomi con gli occhi rossi. Mi abbracciò subito e mi portò in cucina. Tutto era familiare: larmadio scuro pieno di pentole daltri tempi, le scodelle smaltate, lo sgabello di nonna.
“Non potete riconciliarvi?” chiese versandomi il t